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La boxe

Il 19 novembre si è inaugurata al Circolo Arci Bellezza, in quella che fu la palestra di boxe in cui Luchino Visconti girò alcune scene di “Rocco e i suoi fratelli” e in cui si svolsero le selezioni per la squadra delle olimpiadi del 1960, si è inaugurata la mostra di incisioni e dipinti di Nino Crociani “La boxe degli anni’50 tra mito e memoria”.

Note per la mostra “La boxe degli anni’50 tra mito e memoria”.
L’idea per queste incisioni mi era venuta qualche anno fa, quando mi ero messo in testa di fare, alla “ricerca del tempo perduto”, una autobiografia per immagini. Poi, un po’ per la difficoltà di far tornare alla memoria le immagini di un tempo ormai troppo lontano, un po’ per un certo senso del ridicolo che mi prendeva a cercare di raccontarmi, ho lasciato perdere. Di quel tentativo, però, mi sono rimaste le incisioni sulla boxe, nelle quali ho cercato di ricreare l’atmosfera degli anni in cui frequentavo, a Ferrara, una palestra di pugilato. Erano gli anni a cavallo fra la fine degli anni ’40 e l’inizio degli anni ’50 (dal 1949 al 1952 circa). Ormai dimenticato l’entusiasmo dell’immediato dopoguerra, la pace sembrava, almeno a noi giovani, altrettanto cupa quanto la guerra e senza speranze: avevo appena finito il liceo, ero sempre senza una lira e con un futuro quanto mai incerto. Lo squallore del presente e l’angoscia del futuro mi rendevano pigro, inetto ed egoista, In quelle circostanze la palestra diventava un luogo di evasione e, in qualche modo, di affermazione di sè, le uniche cose che condividevo con gli altri suoi frequentatori, emarginati in cerca di riscatto, fra i quali c’era un po’ di tutto: operai, manovali, ladri e sfruttatori. Del resto la palestra era situata in uno dei quartieri più malfamati della città. Comunque ad alimentare la mia passione per la boxe c’erano anche le suggestioni
della letteratura e del cinema. Dai racconti di Jack London (uno, “Il messicano”, mi colpì allora moltissimo) a quelli di Ring Lardner ed Hemingway, a film come “Il grande campione” (Champion) di Mark Robson e “Stasera ho vinto anch’io” (The set up) di Robert Wise, entrambi del 1949. E non c’era “noir” che si rispettasse dove non ci fosse una sequenza girata in una palestra di boxe o durante un incontro. E poi c’era il senso della trasgressione: venivo da una famiglia molto moralista per la quale frequentare una palestra di pugilato era poco meno che frequentare i bordelli;
Ma erano anche gli anni dei grandi miti della boxe. Da undici anni Joe Luis era campione del mondo dei pesi massimi e resisteva agli assalti di Billy Conn e Joe Walcott. Nella più spettacolare delle categorie, i pesi medi, si avvicendavano ai vertici grandissimi pugili: Tony Zale, Rocky Graziano, poi ancora Tony Zale, Marcel Cerdan, Jake La Motta e, infine, il più grande di tutti, Ray Sugar Robinson. A quel tempo la boxe era così popolare che, in occasione dei grandi incontri, ne venivano proiettati i filmati al cinema, in genere assieme allo spettacolo in programma. Correvamo io e i miei amici a vederli appena ce n’era uno, così ho assistito alle grandi battaglie tra Jake La Motta e Dauthuille (altro grande peso medio francese) e tra Jake La Motta e Ray Robinson (l’ultima, di cui ti accludo la foto della fine, anche perché mi è venuto in mente qualcosa a proposito di “Raging Bull”). Oppure ne parlavamo ad un angolo del castello Qualche volta, più di rado perché più vecchio di noi e già impegnato a lavorare per il PCI capitava di incontrare Florestano Vancini (che avrebbe poi diretto “La lunga notte del 43”). Se il discorso cadeva sulla boxe, più informato di noi, raccontava di come Robinson, quando veniva i Europa per un incontro, viaggiasse con non meno di trenta persone al seguito compreso il barbiere personale. Oppure apprendevamo, con un misto di invidia e ammirazione che Marcel Cerdan era l’amante di Edith Piaf.
Certo mitizzavamo molto. In realtà, in gran parte, questi “eroi” erano dei perdenti: quasi tutti finivano suonati o in miseria o tutte e due le cose insieme. Ma credo che fosse proprio questo che ci affascinava.
Dopo il 1952 o il ‘53, cessata del tutto la mia frequenza in palestra, il mio interesse per la boxe si era molto smorzato, senza mai spegnersi del tutto. Continuavo a coltivarlo attraverso il cinema. Nel 56 sia Mark Robson che Robert Wise erano tornati al tema della boxe. L’ultimo, in ordine di tempo, film sulla boxe che ho visto è “Toro scatenato” (Raging bull) di Scorsese. Certo un bellissimo film con una ricostruzione quanto mai fedele degli incontri (di tre almeno avevo visto i filmati all’epoca), tranne che per un particolare non insignificante, frutto forse di inconscia vena di razzismo, e cioè l’immagine che viene data di Robinson. Come puoi vedere dalla fotocopia che ho accluso alla lettera, nella realtà Ray Sugar Robinson era un bellissimo atleta, dal volto integro e dal corpo perfetto, molto diverso dal magro e brutto Nino.

Carta e Ferro
Alla fine degli anni 90 stavo preparando una mostra sui pugili e avevo cominciato ad incidere a punta secca delle grandi lastre di rame e alluminio, ma il risultato non mi soddisfaceva: casualmente, andando a ritirare delle cornici di ferro che avevo ordinato, vidi nel laboratorio del fabbro delle grandi lastre di ferro corroso la cui superficie mi affascinò immediatamente. Sembravano delle grandi acquetinte già pronte da stampare così come erano. Poiché per il fabbro erano inservibili, me le feci dare e da allora iniziai questo dialogo con il ferro corroso che mi servì dapprima a dare più consistenza alle immagini di pugili che stavo incidendo e poi a dare corpo alle immagini che via via mi andavano suggerendo. Il risultato di quel dialogo sono le stampe che vengono ora esposte nelle sale del Museo Messina.
nero che lo interpreta sullo schermo. Comunque “Toro scatenato” è più un film sugli italo-americani che sulla boxe.

2015
Scrivere di sé è un compito piuttosto imbarazzante, il rischio peggiore è quello di dire delle inutili banalità. Comunque, avendo appena oltrepassato la soglia degli ottant’anni e, quindi, ben poco da perdere, vedrò di correre questo rischio, limitando in ogni caso il discorso alle uniche cose che ritengo possa valere la pena di comunicare agli altri e, cioè, quelle che amo o detesto nell’ambito specifico del mio lavoro e, più in generale, come uomo e come cittadino.
Cominciando da ciò che ha più stretta attinenza con la attività di pittore e incisore, ho amato tutte le avanguardie del novecento, gli espressionisti in particolare, e poi, di volta in volta, gli informali, la neofigurazione (Giacometti e Bacon) i neoespressionisti. Non ho amato molto la pop art e ho detestato la transanvanguardia. Detesto i graffitari, la povertà del loro linguaggio e il loro insopportabile conformismo. Amo anche il Giacometti scultore, e, sempre nell’ambito della scultura, tra gli italiani il Marini meno manierista, quello dei ritratti per intenderci, e poi Pino Spagnulo e Nanni Valentini. Per quel che riguarda l’incisione ho amato moltissimo Goya e Picasso, Munch e gli espressionisti, e, tra i contemporanei, Baselitz.
Amo la splendida finzione del cinema e detesto la pochezza figurativa e narrativa delle fiction televisive. Del cinema ho amato la grande stagione dell’espressionismo tedesco (Murnau e Fritz Lang ), il cinema francese dell’epoca del fronte popolare (Carnè e Renoir ); Chaplin e Buster Keaton e quel grande genio del cinema che era Erich von Stroheim. I neorealisti, Rossellini in primo luogo; il cinema noir americano; i grandi Bunuel e Orson Welles, Becker e la nouvelle vague, i giovani arrabbiati inglesi e il nuovo cinema tedesco.
Detesto la tv culi e tette, le telenovelas, grandi fratelli, tronisti e veline, i talk- show urlati e i vari Sgarbi che li popolano. .
Ho sempre amato la letteratura: da ragazzo leggevo di tutto, ma già allora, tra un romanzo di Salgari e uno di Jack London, ho incontrato autori che mi sarebbero divenuti cari in seguito: il Nievo di un frammento delle “Confessioni di un italiano” e il Dostoevskij di “Umiliati e offesi. Se è vero che l’ottocento è il secolo del romanzo, dei classici di quel secolo, ho letto e amato una gran parte .Ma non solo: una lunga galleria di libri e di personaggi che vanno da Riccardo terzo e Don Chisciotte alla Marchesa de Merteuil e Tom Jones e la Marchesa von O, a Jean Sorel e Jean Valjean, alle Illusioni perdute e ai Demoni, ai racconti di Gogol e Tolstoj, Madame Bovary e Bel-Ami, Germinal e il ventre di Parigi, La Nausea e Lo Straniero, 42° Parallelo e i racconti di Hemingway, fino ai libri di Gadda, Pavese, Calvino Sascia e Celati.
Come cittadino rivendico il diritto di essere di parte e non ho alcuna remora a dichiarare che sono decisamente di sinistra: una scelta maturata negli anni successivi alla fine della guerra quando, come molti altri della mia generazione, cresciuti nel culto del duce, ho preso coscienza del grande imbroglio in cui eravamo vissuti durante il fascismo. Una scelta che rivendico di fronte all’indegno spettacolo che questa destra al governo, e il suo leader in particolare, danno di sé. Detesto parimenti il razzismo dei leghisti , il cinismo dei berlusconiani e la tracotanza degli uni e degli altri.
Ma, come cittadino, quel che detesto di più è lo spettacolo di un paese che sembra aver perso ogni memoria del suo recente passato, ogni capacità di indignarsi di fronte al crescente divario fra povertà e ricchezza e di fronte all’arroganza del potere; un paese senza dignità e senza orgoglio, con una irresistibile vocazione al servilismo e alla sudditanza
Potrei aggiungere altro, ma credo di essere già andato oltre lo spazio concessomi e, pertanto, qui si chiude il commento al mio ritratto.

La Marquise de Merteuil ou Choderlos de Laclos
Libro d’artista di Nino Crociani.
Note per la preparazione del libro
Le incisioni che accompagnano le lettere, o parti di lettere, qui raccolte (scelte unicamente tra quelle indirizzate dalla Marchesa di Merteuil al Visconte di Valmont, tranne due) e le annotazioni che seguono non hanno altra pretesa che di essere il modesto omaggio di un lettore dilettante all’autore di un grande libro, la cui lettura continua ad affascinarlo.
Le ragioni della scelta nascono non tanto dalla ovvia considerazione che l’intera vicenda del romanzo ruota intorno al rapporto fra la Marchesa di Merteuil e il visconte di Valmont, ma dal legittimo sospetto che, in questo confronto, ma non solo, la Marchesa di Merteuil faccia le veci di de Laclos.....
Se per tutta la prima parte del romanzo il rapporto si svolge sul piano di una apparente parità, man mano che il confronto si fa più serrato la superiorità della Marchesa si fa sempre più evidente. La svolta nei rapporti è segnata dalla lettera-manifesto n° 81, che è anche quella che marca la profonda differenza tra i due protagonisti: tra un libertino dominato unicamente dalla vanità e dall’orgoglio e una libertina, il cui libertinaggio, alla resa dei conti, si rivela per quello che realmente è: una radicale forma di libertà che non tollera compromessi e per la difesa della quale la Marchesa è pronta a correre qualunque rischio (“He bien! la guerre” [nota in calce alla lett. 153]).
Vendicatrice del suo sesso (….”née pour venger mon sexe”…, dice di sé orgogliosamente [ lett. 81]), non si fa alcuna remora nel denunciarne impietosamente vizi e difetti, senza che ciò, peraltro, impedisca alla sua intelligenza di rendere omaggio a sensibilità e virtù apparentemente le più lontane dal suo universo. Esemplari a questo proposito le sue considerazioni sulle donne che sanno invecchiare [lett. 113].
Non tanto corruttrice, quanto piuttosto strumento rivelatore della corruttibilità, agisce come una sorta di demiurgo, che trae dai personaggi con cui entra in relazione quello che la pasta di cui sono fatti consente loro di esprimere. Che la piccola Volanges si riveli una fraschetta ingenua ed amorale [lett.38,54,106], la madre di lei stupida e cieca [lett. 63], la moralità del giovane Danceny dubbia, Valmont capace di distruggere anche ciò che sembra essergli più caro, è solo apparentemente imputabile alla sua responsabilità. Talvolta il fardello di questo ruolo si fa troppo pesante e la Marchesa di Merteuil sembra cedere al bisogno di una tregua: i toni delle sue lettere sono meno aspri, anzi di una tenerezza insolita [lett. 131,134].
Ma è una tregua di breve durata. Quando risulta del tutto evidente che Valmont non è all’altezza del gioco ( che ormai non si svolge più sul terreno della complicità negli intrighi, ma su quello della consapevolezza di sé e della scelta del proprio destino), il legame si spezza definitivamente.
La Marchesa di Merteuil, che per tutta la durata del romanzo ha improntato il suo rapporto con Valmont ad una sincerità assoluta e davanti a lui si è messa a nudo come di fronte ad uno specchio, scopre infine che lo specchio è infedele e le rimanda una immagine meschina [lett.152]. Valmont non merita più la considerazione di cui finora è stato oggetto, e l’unica menzogna che gli viene riservata è ampiamente giustificata [lett.145].
A rimarcare l’abisso anche “morale” che si è creato fra loro è il tono delle ultime lettere che i due protagonisti si scambiano. A mano a mano che l’atteggiamento di Valmont diventa sempre più meschino e, infine, ricattatorio, più lucida e impietosa si fa l’analisi della Marchesa di Merteuil [lett.141,145,152] e le sue risposte, di una esemplare concisione, trovano degna conclusione nello sferzante sarcasmo dell'ultima lettera [lett.159]……
Poiché non era mia intenzione avventurarmi su di un terreno che non mi appartiene (ma semplicemente testimoniare quanta seduzione un grande personaggio può esercitare su di un lettore, dilettante appunto) qui finiscono le mie annotazioni e lascio alla Marchesa il compito di tracciare da sé, e infinitamente meglio di un modesto interprete, il proprio ritratto.
Il libro è diviso in 21 fascicoli ciascuno dei quali contiene, in un foglio separato, una lettera ; il fascicolo è composta da 4 pagine:
  • La prima pagina riporta il riferimento numerico alla lettera del romanzo e, in alto a sinistra, una piccola incisione (cm 6x4) tratta dalle illustrazioni della edizione ginevrina del 1792 o della edizione londinese del 1796.
  • La terza pagina contiene l’incisione (cm 19x24) che accompagna la lettera. Le incisioni sono ispirate a ritratti di Choderlos de Laclos o a opere di autori del 700 (Fragonard, Boucher e altri).
La presentazione del libro avverrà all’interno del Museo Messina a cura di Maria Fratelli in occasione della rassegna Book City sabato 24 ottobre 2015 alle ore 18.
Le 42 matrici sono incise a puntasecca, acquaforte e acquatinta lastre di zinco, rame o ferro.
Il libro del formato di cm 33x 39,5 è stampato su carta Hahnemuhle.
Le incisioni che accompagnano le lettere, o parti di lettere, qui raccolte, scelte, tranne due, tra quelle indirizzate dalla Marchesa di Merteuil al Visconte di Valmont, e le annotazioni che seguono non hanno altra pretesa che di essere il modesto omaggio di un lettore dilettante all’autore di un grande libro, la cui lettura continua ad affascinarlo.
Le ragioni della scelta nascono non tanto dalla ovvia considerazione che l’intera vicenda del romanzo ruota intorno al rapporto fra la Marchesa di Merteuil e il visconte di Valmont, ma dal legittimo sospetto che, in questo confronto, ma non solo, la Marchesa di Merteuil faccia le veci di de Laclos
Se per tutta la prima parte del romanzo il rapporto si svolge sul piano di una apparente parità, man mano che il confronto si fa più serrato la superiorità della Marchesa si fa sempre più evidente. La svolta nei rapporti è segnata dalla lettera-manifesto n° 81, che è anche quella che marca la profonda differenza tra i due protagonisti: tra un libertino dominato unicamente dalla vanità e dall’orgoglio e una libertina, il cui libertinaggio, alla resa dei conti, si rivela per quello che realmente è: una radicale forma di libertà che non tollera compromessi e per la difesa della quale la Marchesa è pronta a correre qualunque rischio (“He bien! la guerre” [nota in calce alla lett. 153]).
Vendicatrice del suo sesso (….”née pour venger mon sexe”…, dice di sé orgogliosamente [ lett. 81]), non si fa alcuna remora nel denunciarne impietosamente vizi e difetti, senza che ciò, peraltro, impedisca alla sua intelligenza di rendere omaggio a sensibilità e virtù apparentemente le più lontane dal suo universo. Esemplari a questo proposito le sue considerazioni sulle donne che sanno invecchiare [lett. 113].
Non tanto corruttrice, quanto piuttosto strumento rivelatore della corruttibilità, agisce come una sorta di demiurgo, che trae dai personaggi con cui entra in relazione quello che la pasta di cui sono fatti consente loro di esprimere. Che la piccola Volanges si riveli una fraschetta ingenua ed amorale [lett.38,54,106], la madre di lei stupida e cieca [lett. 63], la moralità del giovane Danceny dubbia, Valmont capace di distruggere anche ciò che sembra essergli più caro, è solo apparentemente imputabile alla sua responsabilità. Talvolta il fardello di questo ruolo si fa troppo pesante e la Marchesa di Merteuil sembra cedere al bisogno di una tregua: i toni delle sue lettere sono meno aspri, anzi di una tenerezza insolita [lett. 131,134].
Ma è una tregua di breve durata. Quando risulta del tutto evidente che Valmont non è all’altezza del gioco (che ormai non si svolge più sul terreno della complicità negli intrighi, ma su quello della consapevolezza di sé e della scelta del proprio destino), il legame si spezza definitivamente.
La Marchesa di Merteuil, che per tutta la durata del romanzo ha improntato il suo rapporto con Valmont ad una sincerità assoluta e davanti a lui si è messa a nudo come di fronte ad uno specchio, scopre infine che lo specchio è infedele e le rimanda una immagine meschina [lett.152]. Valmont non merita più la considerazione di cui finora è stato oggetto, e l’unica menzogna che gli viene riservata è ampiamente giustificata [lett.145].
A rimarcare l’abisso anche “morale” che si è creato fra loro è il tono delle ultime lettere che i due protagonisti si scambiano. A mano a mano che l’atteggiamento di Valmont diventa sempre più meschino e, infine, ricattatorio, più lucida e impietosa si fa l’analisi della Marchesa di Merteuil [lett.141,145,152] e le sue risposte, di una esemplare concisione, trovano degna conclusione nello sferzante sarcasmo dell'ultima lettera [lett.159]
Poiché non era mia intenzione avventurarmi su di un terreno che non mi appartiene (ma semplicemente testimoniare quanta seduzione un grande personaggio può esercitare su di un lettore, dilettante appunto) qui finiscono le mie annotazioni e lascio alla Marchesa il compito di tracciare da sé, e infinitamente meglio di un modesto interprete, il proprio ritratto.